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Insegnare latino
Francesco Rocchi
“Ragazzi, dovete migliorare il vostro vocabolario di latino! Nella vita, quando vi troverete a tradurre all’impronta, non avrete sempre a disposizione un vocabolario!”.
Generalmente, quando me ne esco con qualche frase del genere, gli studenti imprecano tra i denti o fanno esplicita professione di scetticismo. Presi come sono dal lavoro di traduzione, non sono nella giusta disposizione di spirito per apprezzare l’ironia di bassa lega del loro professore. La battuta finisce sempre per lasciare a me, più che a loro, un certo senso di inquietudine. Sto facendo, ed insegnando, qualcosa di inutilmente astruso? Potrebbe essere che abbiano ragione loro a vedere nel latino una fastidiosa complicazione della loro vita?
La domanda non è peregrina e, anche se non è di certo nuova, non è nemmeno vecchia: la sua età coincide con quella del più giovane studente di latino. La ragione che rende utile lo studio del latino però è sempre la stessa, e tutto sommato è abbastanza semplice. Il latino è il tramite che noi abbiamo verso una numerosa serie di civiltà, che lo hanno usato per esprimere tutte sé stesse e che vale la pena conoscere. In più, lo studio dell’antichistica porta con sé metodi e principi di validità generale: fondamenti di linguistica, antropologia culturale, economia, sociologia, diritto, storia della scienza...Certo, con la difficoltà ulteriore della frammentarietà delle fonti a nostra disposizione, ma, per paradosso, questa si può rivelare metodologicamente fertile. Le scienze dell’antichità insegnano la pazienza e la prudenza, poco ma sicuro.
La domanda, anche se gli studenti raramente la pongono in questi termini, non è tanto se studiare latino, ma come.
La fisionomia della nostra didattica del latino è abbastanza facilmente definibile: noi impariamo il latino per tradurlo. Impariamo tanta grammatica, poco lessico e una lunga serie di costrutti. Il vocabolario è il nostro salvagente. Su come si sia arrivati ad una didattica così povera è stato scritto molto, in particolare da Luigi Miraglia, il quale invece ha adottato, e promuove con molta energia, una didattica completamente diversa, modellata su quella delle lingue moderne e ispirata alle teorie di uno studioso danese, Hans Ørberg. Quest’ultimo, probabilmente, non era insensibile alle invettive che già a metà XIX secolo Grundtvig aveva lanciato contro il Liceo Classico, definito senza troppi complimenti “scuola per la morte”.
Il principio di questo metodo è che il latino vada insegnato in vivo, dando modo agli studenti non solo di leggerlo ma anche di scriverlo, imparandone le regole grammaticali induttivamente e praticamente, partendo sempre dai testi, e non dalle regole. L’attività di traduzione è riservata soltanto agli ultimi anni di apprendimento (quando il lavoro è reso molto più facile dalla conoscenza approfondita della lingua).
In effetti, tutti noi al giorno d’oggi impariamo almeno una lingua straniera, ma pochi tra noi traducono testi (attività splendidamente intellettuale, ma lenta, faticosa, snervante e specialistica). Capita spesso di leggere in lingua straniera, ma raramente ci prendiamo la briga di produrre un testo scritto che ripeta parola per parola, in italiano e con lo stesso stile, quel che abbiamo letto. Nel parlato, poi, bisogna proprio sforzarsi di pensare in lingua straniera. Lo studio del latino, dicono Ørberg e Miraglia, non dovrebbe fare eccezione: anche qui va introdotto lo schema quadripartito di ascolto, lettura, produzione orale e scritta. Nella scuola italiana siamo invece ancora allo stadio della “scuola per la morte”. Il latino non ne ha colpa alcuna, ma cosa si può fare?
Dal punto di vista didattico la soluzione è abbastanza semplice: si buttano a mare le grammatiche vecchie (o finto nuove) e si adotta il metodo Ørberg, o qualcosa di ispirato alla stessa freschezza intellettuale. Molti già lo fanno.
C’è solo un problema: un simile approccio richiede continuità. Bisogna che un insegnante sia convinto della scelta fatta e la porti avanti con pazienza. Allo stato attuale le scuole superiori in cui si insegna latino sembrano invece fatte apposta per renderne più frammentario e confuso lo studio: si comincia con un biennio infarcito di grammatica astratta e poi, con un altro professore, si passa allo studio della letteratura, mentre la storia e la cultura antiche si studiano solo al primo anno. Al Liceo Classico, poi, lo studio delle letterature greca e latina non vede nessun tipo di sincronizzazione, col risultato che sembra si parli di due mondi diversi che non si sono mai incontrati. E’ vero che le scuole oggi hanno margini di autonomia maggiori rispetto al passato, e che spesso non li sfruttano, ma sulla divisione biennio/triennio non hanno voce in capitolo.
In conclusione, per dare senso e smalto ad una materia come il Latino sarebbe necessario non solo un primo intervento (possibile e già avviato) nel proprium della didattica del latino, ma anche nell’organizzazione generale della vita scolastica.
Ma è evidente che, a questo punto, non stiamo più parlando del solo Latino.